Anni sessanta: il gioco delle superfici

Dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta il fiorire delle invenzioni, nell'architettura e nel design, per Gio Ponti si sviluppa in crescendo, fino agli anni Settanta. È cominciata per Ponti la grande età (o la splendida età, come egli la chiama per Le Corbusier di Ronchamp, Chandigarh e Ahmedabad) nel senso felice di una visione che compare o ricompare con gli anni. Basta vedere non solo come Ponti progetta ma come pubblica i suoi progetti in Domus, in modo sempre più sintetico e poetico perfino in forma di favola. E come parla sempre più di forma, e sempre più d'immaginazione. Nominando il regno della Bellezza (Van De Velde) al di là delle imperanti problematiche.

In questo decennio, decennio di grandi scomparse, nell'architettura e nell'arte di hopes and fears (Giedion), e di un panorama di alba, di risveglio, d'inediti (Ponti) - il pensiero e l'opera di Ponti si riassumono nel detto l'architettura è fatta per guardarla. Che è il detto pontiano finale, sintesi da Vitruvio, a modo suo. Ponti costruisce e propone. E dall'edificio Shui-Hing a Hong Kong, '63, alle chiese di San Francesco e San Carlo a Milano, 64 e 66, agli edifici di via San Paolo, Milano, '67, all'involucro dei magazzini Bijenkorf a Eindhoven, '67, ai progetti di grattacieli triangolari colorati, '67, il suo è un giocare in superficie, con le aperture e con il rivestimento, splendente, in ceramica a diamante ed un procedere per facciate indipendenti dalla struttura e dalla pianta che ci riporta a quel detto: L'architettura è fatta per guardarla. Perché l'architettura è paesaggio pubblico, attraverso le facciate: Le facciate sono le pareti della strada, e di strade è fatta una città: le strade sono la parte visibile della città, sono ciò che della città appare. Anche di notte.

Da "Gio Ponti, l'opera" di Lisa Licitra Ponti,1990, Leonardo Editore